Unione Europea: (finora) per l’Italia è stato un pessimo affare.

03.04.17

Emmanuele F.M. Emanuele

Torno volentieri a riflettere su un tema di persistente attualità, che ci riguarda direttamente sia nel presente sia in prospettiva, sul quale rivolgo la mia attenzione fin dalla metà degli anni ’70 e sul quale sono tornato a riflettere in occasione delle recenti celebrazioni per il sessantesimo anniversario della firma dei trattati di Roma.
Nell’affrontarlo, inizierei con il porre due domande: 1) se l’Europa, così com’è stata realizzata, si fonda su valori condivisi; 2) se restare in questa Europa conviene ancora, sia in termini politici, sia, ancor di più, in termini economici.
Alla prima domanda non si può che rispondere negativamente.
La mancanza di un’identità comune riconosciuta e di una volontà forte degli Stati fondatori di voler costruire un soggetto unitario, in prospettiva, anche politico, la difficoltà nel coordinamento delle politiche nazionali, mi sembravano ieri, quando ne parlai per la prima volta a Firenze nel 1978, segnali preoccupanti, che indicavano il rischio di ridurre lo SME ad una semplice area di libero scambio.
Allora mi chiedevo: “Siamo proprio sicuri di andare nella direzione indicata dai padri fondatori?”
La domanda può essere riformulata oggi: “L’attuale Unione Europea in che misura rispecchia gli obiettivi originari?” La risposta credo che sia abbastanza sconfortante.
L’Europa di oggi c’entra ben poco con il sogno dei Padri fondatori, Spinelli, Adenauer, De Gasperi, Monnet, ed è profondo il disagio nel contemplare un’architettura istituzionale che si palesa non come l’Europa dei popoli, bensì come quella dei mercati, della burocrazia invasiva e soffocante, dell’incapacità di governare problemi e crisi comuni, un’Europa, insomma, che fa nascere in molti la legittima tentazione di chiamarsi fuori.
La verità dolorosa è che la grande opportunità di dar vita ad un’unione politica di Stati e di popoli, fondata sulla consapevolezza delle comuni origini e sulla volontà di camminare insieme al di là delle differenze, è stata perduta, ed oggi non resta che prendere atto che il progetto originario è quasi irriconoscibile.
Siamo ben lontani dall’Europa dei popoli, poiché è palese una distanza siderale tra le istituzioni comunitarie ed i cittadini europei, i quali non sono chiamati ad esprimersi sulle grandi questioni che li coinvolgono, come, ad esempio, la gestione dei flussi di migranti e rifugiati, e anche il Parlamento europeo ha un peso ancora modesto rispetto al modello di democrazia partecipativa a suffragio universale, mentre l’operatività effettiva viene decisa da uffici deresponsabilizzati, che agiscono secondo logiche meramente burocratiche o lobbistiche.
L’immagine offerta dall’Unione europea è quella di un apparato tentacolare, imponente e costoso, con una tendenza spiccata a regolare in modo severo e pervasivo aspetti circoscritti per lo più di natura commerciale, senza riuscire a governare le crisi economiche, ad elaborare politiche comuni, che ha continuato a diffondere il verbo del rigore nei conti e dell’austerità, impedendo l’uscita dalla crisi di molti Stati membri, soprattutto quelli del Sud.
Venendo alla seconda domanda: “conviene restare nell’Unione Europea?”, direi che anche in questo caso la risposta è disarmante. Sotto il profilo politico, resto convinto che l’appartenenza ad un organismo unitario, stabile, e consapevole del ruolo che può giocare a livello globale, sia un valore aggiunto in sé e per il nostro Paese, in particolare. È chiaro, infatti, che in un mondo globalizzato la dimensione localistica-nazionalistica stride, e rischierebbe di risultare del tutto ininfluente. Il problema è che l’attuale Unione Europea è ben distante dal modello unitario che ho tratteggiato poc’anzi, ed ancor di più da quello di multistato federale che, a mio parere, sarebbe l’architettura più appropriata, in quanto consentirebbe comunque di valorizzare, e non azzerare, le storie e tradizioni di ciascun Stato membro.
Quanto al versante economico ed ai suoi risvolti sociali, non si può che constatare come sia proprio in questi ambiti che si è palesato in misura più evidente e drammatica il fallimento del progetto europeo.
Il ricorso insistito e convinto all’austerità è stato un errore imperdonabile, perché si è riusciti solo a produrre recessione, senza aiutare la crescita, cioè l’uscita dal tunnel della crisi. I continui sacrifici imposti ai cittadini dei Paesi economicamente più fragili, hanno alimentato un’ostilità rabbiosa e omnicomprensiva, che ha radici profonde e che alcune forze politiche, anche in Italia, hanno cavalcato, più o meno consapevoli di quale fosse davvero la posta in gioco. A rischio, infatti, non è solo la tenuta dell’eurozona, ma la sopravvivenza dell’intero progetto europeo. Il mito dell’austerità, peraltro, mi piace ricordare, è una costruzione del ministro delle finanze tedesco, privo di fondamento, considerato che il debito pubblico rispetto al PIL era mediamente del 66% a fine 2007 nei 17 Paesi della zona euro ed è passato ad oltre l’85% nel 2010. L’Italia stessa nel 2007 registrava un deficit di bilancio ben al di sotto degli assurdi vincoli di Maastricht, l’1,5%, ed il rapporto deficit/PIL era al 103%, mentre ora ha superato il 132%.
Le politiche di austerità hanno, inoltre, provocato uno “tsunami sociale”, con il ceto medio che è stato messo in ginocchio e con la ricchezza che si è spostata verso le fasce alte della popolazione, con l’effetto di ampliare sensibilmente coloro che si sono ritrovati alle soglie della povertà.
Il complesso di Weimar, di cui la Germania è ancora intrisa, ossia il terrore dell’inflazione, ha fatto ritenere che l’innalzamento delle imposte fosse la strada per risolvere tutti i problemi: errore macroscopico anch’esso, cui l’Italia si è maldestramente accodata. La Germania, peraltro, si è comportata in modo assai spregiudicato, violando diverse regole che essa tiene ad imporre ad altri Paesi membri. Le banche tedesche, ad esempio, hanno praticato fuori dal loro Paese una politica del tutto opposta a quella nazionale: hanno prestato soldi per i mutui subprime negli USA; hanno finanziato la crescita esplosiva del mercato immobiliare in Irlanda; hanno garantito liquidità ai banchieri islandesi che si sono lanciati in speculazioni così rischiose, da portare il Paese al collasso, e lo stesso hanno fatto in Grecia, Spagna e Italia. Da considerare, poi, che le principali banche tedesche hanno in pancia miliardi di euro in derivati, che sono come una vera e propria bomba ad orologeria, in grado di disintegrare la stabilità finanziaria di tutto il sistema creditizio europeo.
Il famoso miracolo delle esportazioni tedesche, aggiungo, non è dovuto ad una maggiore efficienza del sistema germanico, bensì alla politica di compressione dei salari e della domanda interna attuata fin dal 2000 ed al fatto che gli altri Paesi non hanno seguito la stessa linea. Vi è stato, in effetti, un massiccio riequilibrio della bilancia dei pagamenti, ma dovuto per lo più al calo dei redditi ed al crollo della domanda interna, soprattutto nei Paesi della periferia del continente, i quali hanno sì ridotto i loro deficit, ma i Paesi del centro non hanno, invece, ridotto i loro surplus.
Un altro punctum dolens dell’assetto istituzionale comunitario è la Banca europea, che, al di là di tutti i proclami sul suo ruolo, ha un unico reale obiettivo: tenere sotto controllo l’inflazione. I suoi poteri sono sì importanti (la decisione di ricorrere al quantitative easing è una testimonianza), ma comunque limitati, e non paragonabili a quelli delle banche centrali di Paesi quali il Regno Unito, il Giappone, gli USA.
Il problema è comunque più a monte, e riguarda il fatto di avere un sistema a moneta unica con 19 debiti pubblici, regimi fiscali, previdenziali e del lavoro anch’essi tutti diversi.
Vogliamo poi parlare della moneta unica? È evidente che sono stati sbagliati innanzitutto i tempi. Invece di fare prima l’Europa politica si è preferito dare la precedenza all’euro. L’euro rappresenta così un’anomalia a livello mondiale, in quanto è l’unica moneta nella storia che è stata emessa in assenza di una politica monetaria, finanziaria e fiscale comune tra gli Stati aderenti all’eurozona. Essa, inoltre, è figlia di una moneta troppo forte rispetto ad un’economia che, presa nel suo complesso, è viceversa debole.
L’Europa attuale, insomma, non si regge su valori condivisi e la sua economia, duramente provata dalla lunga crisi, non decolla e cresce a tassi non competitivi rispetto al gigante asiatico, agli Stati Uniti ed alle altre economie emergenti. Necessita, insomma, di un profondo ripensamento, sia nella struttura istituzionale, sia nelle scelte di politica economica, da condividere ed attuare in modo rigoroso e trasparente, nel rispetto delle potenzialità e delle criticità di ciascun Stato membro.
A tal ultimo proposito, venendo all’Italia, la situazione è evidentemente aggravata da inefficienze strutturali che ci portiamo dietro da molti decenni e che l’adesione all’Europa ha forse aggravato.
Siamo entrati nell’euro nel modo peggiore che un Paese potesse adottare, cioè sulla spinta della convinzione che bisognasse entrarvi per primi, e subendo nel ’92 una svalutazione del 30% della lira da parte della Banca d’Italia, che non è servita a nulla. Successivamente, abbiamo negoziato un grande prestito, che parimenti è andato ad incrementare il debito pubblico. Per di più, nella negoziazione del valore del concambio, non abbiamo messo sul tavolo la nostra vera ricchezza, il vasto patrimonio artistico culturale e paesaggistico, ma solo il nostro debito pubblico, dimenticando che, in 150 anni di storia nazionale, per più di 110 anni l’Italia ha viaggiato costantemente con il 60% dell’indebitamento rispetto al PIL.
Errori imperdonabili sono stati poi fatti in politica economica. Invece di ridurre il carico fiscale su famiglie ed imprese, secondo quel criterio della curva di Laffer che predico da anni, si è preferito aumentarlo, senza tagliare la spesa pubblica improduttiva. Sono state introdotte. al contrario, nuove tasse sugli immobili (Tares, Tasi, Tari, di fatto una vera e propria patrimoniale) e sui servizi comunali, che nella maggior parte dei casi non vengono resi, portato l’Iva al 22%, aumentato il bollo sui conti correnti e sui titoli, che rappresentano altre patrimoniali occulte, le accise sui carburanti, i pedaggi autostradali, ecc., scelte che hanno abbattuto i consumi e messo in ginocchio il ceto medio e le classi meno abbienti. Si era sbandierato che si sarebbero tagliati i costi della politica, abolite le province, ridotti gli sprechi, ed ancora non è visto nulla. La riforma costituzionale approntata dal governo Renzi, e poi bocciata con il referendum dello scorso 4 dicembre, benché confusa e non sufficientemente approfondita a livello tecnico-legislativo, offriva una prima parziale e senza dubbio perfettibile risposta all’esigenza di semplificazione dei processi decisionali, di eliminazione del bicameralismo perfetto, di alleggerimento dell’apparato statuale, con conseguente riduzione, seppur non particolarmente incisiva, dei costi della politica. Il progetto di riforma costituzionale, in verità, era scritto male, era privo di una chiara indicazione circa il suo funzionamento una volta inserito nel precedente assetto istituzionale, e presentava errori imperdonabili sotto il profilo giuridico ed economico, cosicché siamo di nuovo al punto di partenza, e chissà quando sarà nuovamente affrontata la necessaria revisione della Costituzione, le cui disposizioni sono indiscutibilmente incomplete.
Al di là dell’esito referendario, avremmo dovuto ridurre il costo enorme della burocrazia italiana, e avviarci verso la deregolamentazione, la semplificazione delle procedure amministrative, maggiori investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture, nell’ammodernamento urbanistico, nella tutela del territorio, favorendo il mercato globale, la competizione, la libertà d’intrapresa. La presenza pubblica doveva drasticamente ridursi, perché fonte d’inefficienze, irresponsabilità e clientelismo, e i settori di competenza statuale dovevano cominciare ad agire con criteri manageriali. Avremmo dovuto rafforzare l’azione del privato sociale, ed invece, l’art.118 della Costituzione ed il principio di sussidiarietà in esso contemplato sono rimasti lettera morta. Un libro di sogni rimasti nel cassetto. La disoccupazione è oggi ad un tasso a due cifre, salito a settembre del corrente anno all’11,6% secondo dati ISTAT, e preoccupa il dato relativo ai giovani, che, seppur in leggero miglioramento, resta oltre il 37% nello stesso periodo del 2016 e tocca agli inizi del corrente anno il 40%. Il debito pubblico è ancora una voragine enorme, toccando 2.224 miliardi di euro ad ottobre scorso secondo Bankitalia, e cioè oltre il 132% del PIL, che cresce in misura assai modesta (il FMI prevede +0,8% per il 2017). Il sistema bancario è al collasso a causa della crisi concomitante delle imprese industriali e commerciali del nostro Paese.
Di fronte alla situazione così come descritta, non mi pare che ci siano vere e concrete speranze di un cambiamento possibile, né sul fronte politico, né su quello economico.
Soltanto applicando una ricetta condivisa, nella comune consapevolezza degli errori finora commessi, l’Europa può pensare di evitare la disintegrazione del suo progetto unitario, ambizioso, ma giusto ed auspicabile nelle sue intenzioni originarie. Tale ricetta dovrebbe comprendere, a mio giudizio, una serie di misure importanti.
Innanzitutto, la revisione della struttura del modello politico europeo, in senso federale. In secondo luogo, l’adozione di maggiore equilibrio ed attenzione nella distribuzione delle risorse comunitarie agli Stati membri, visto che, come attestato dalla Corte dei Conti, dal 2008 al 2014 le casse italiane hanno registrato un saldo negativo di 39 miliardi, e che soltanto nel 2014 l’Italia ha versato 5,4 miliardi in più di quanto ha ricevuto come finanziamenti, continuando a farsi carico, insieme ad altri Paesi, di una quota dei rimborsi al Regno Unito per la correzione dei suoi “squilibri di bilancio” (1,2 miliardi di euro nel 2014, con un incremento di circa il 29% rispetto all’anno precedente, rimborsi per i quali poi il Regno Unito ha ringraziato, votando per l’uscita dalla UE). In terzo luogo, all’attenzione ai parametri di finanza pubblica deve affiancarsi quella alle questioni sociali: la disoccupazione, l’aumento della povertà, le crescenti disuguaglianze sociali. Occorrono poi: l’adozione di politiche economiche e di bilancio coordinate e comuni; una banca centrale legittimata ad agire non solo per tenere a bada l’inflazione; regole e teste nuove, professionalmente competenti, selezionate in base ai meriti e non all’appartenenza al gruppo politico; una diversa governance europea non più a trazione tedesca; la rinegoziazione di un nuovo Trattato dell’Unione che dia vita all’unione politica, per poi disciplinare in modo diverso la questione dei debiti dei singoli Stati, prevedendo forme di condivisione degli stessi. È fortemente auspicabile, inoltre, l’adozione d’interventi efficaci per ridurre il peso dell’apparato burocratico delle istituzioni europee, dando segnali concreti di tagli al bilancio comunitario; l’adozione progressiva di una politica estera e di difesa comuni, nonché di scelte condivise in materia d’immigrazione e diritto d’asilo; un cambiamento di strategia e d’indirizzi, che trasformi un’Europa prevalentemente nordcentrica, in un’Europa attenta e sensibile alla crescita della sua parte meridionale e del Mediterraneo, la cui area andrebbe valorizzata anche come rotta commerciale preferenziale tra il Vecchio Continente e l’Estremo Oriente.
Come si vede, la ricetta è complessa ed impegnativa, ed anche attraverso un compromesso, direi inevitabile, dubito sinceramente che possa realizzarsi anche solo in minima parte.
Allora, in mancanza di segnali concreti di cambiamento nella direzione indicata, viene istintivo solidarizzare con la decisione degli inglesi di uscire dalla UE, formalizzata il 29 marzo con la presentazione della lettera di richiesta di attivazione dell’art.50 del Trattato di Lisbona, decisione che, contrariamente alle previsioni dei soliti soloni, non ha avuto impatto negativo sul sistema economico del Paese, tanto che molti imprenditori stanno facendo a gara per delocalizzare nella City. Bisogna, allora, aprire il futuro a tutti gli scenari possibili.
In effetti, l’impatto e le conseguenze registrati sui mercati nella prima fase dopo il referendum inglese sono stati assorbiti ed ora molti economisti non credono più che ci sarà una recessione nel Regno Unito ma che, anzi, l’economia inglese trarrà beneficio dall’uscita dall’UE. E se questa previsione si consoliderà nei prossimi due anni, la scelta del Regno Unito potrebbe far scattare sogni analoghi, finora sopiti, in altri Paesi UE.
Tornando alla posizione dell’Italia rispetto all’Unione, concludo osservando che qualora sulla piattaforma di modifiche sopra proposte non si dovesse raggiungere l’auspicato consenso, anche con i necessari compromessi, allora andranno tratte le dovute conclusioni. E la prima dovrebbe essere la reintroduzione della nostra originaria moneta per gli scambi interni, cosa perfettamente realizzabile, come dimostrano il Regno Unito, la Danimarca, la Svezia e Paesi dell’Est come Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca. E questo andrebbe fatto senza uscire dall’unione monetaria, scelta sempre più onerosa ed impraticabile col passare del tempo, e mantenendo l’euro per i rapporti esterni. In pratica, si tratta di passare alla doppia circolazione euro/lira come da me ipotizzato tempo fa, proposta che oggi alcuni leader politici dichiarano di condividere. La soluzione prospettata, tra l’altro, ci metterebbe al riparo dalla pretesa crisi inflazionistica che molti paventano, migliorerebbe il rapporto all’interno delle componenti del nostro sistema economico e, così come per i Paesi sopra citati, ci consentirebbe una ripresa economica ed un miglioramento complessivo della condizione sociale dei nostri concittadini.