Ora che la piramide demografica incalza e la questione economica è divenuta più grave, le questioni riguardanti la fase terminale della vita umana non sono più confinate alla pratica clinica, ma hanno raggiunto una dimensione sociale. Il diritto a “morire con dignità” è divenuto un aspetto centrale nella cultura contemporanea. Esso è sacrosanto. Va tenuto presente che il tema della dignità della persona umana si iscrive in tutto l’arco della sua esistenza, dall’inizio alla fine e in tutte le condizioni nelle quali la persona si trova a vivere. Parlare di dignità del morire significa anche una nuova cultura della vita e delle relazioni.
Chi muore, muore spesso da solo, senza nessuno accanto. È il segno di un profondo cambiamento – di imbarbarimento, direi – di cultura che passa dalla richiesta di “pietà per chi muore” a quella di chi richiede la “morte per pietà”. E l’uomo è rimasto solo, soprattutto quando ha più bisogno di aiuto, come appunto nel momento della morte. La solitudine è sempre brutta, ma nei momenti della debolezza e della malattia lo è ancora di più. Si preferisce allora la morte al soffrire da soli. La richiesta di eutanasia molte volte parte da qui. Non è dignità – a mio parere – mettere una pillola mortale sul comodino a disposizione del moribondo, anche se a chiederlo è stato lo stesso malato. Alcune società contemporanee hanno invece consacrato la scelta eutanasica, sino a ritenerla un’ideale di morte a cui guardare. Una cosa però è continuare ad aiutare un paziente nel momento in cui la morte si approssima (aiutare a morire), altra cosa è farlo morire. La vera dignità è quella che prova la persona fragile, malata, quando viene curata con delicatezza, tatto e accompagnata con affetto e generosa attenzione.
Nella fede cristiana – ma anche in altre culture – l’uomo è per sua natura un essere relazionale. E quindi la dipendenza – o meglio la sua radicale interdipendenza – è un valore. L’alterità non è il limite con cui l’uomo deve scontrarsi, la minaccia da cui deve difendersi, ma il suo intimo punto di forza, la sua migliore possibilità. Nella debolezza si scopre che l’aiuto altrui (la tanto temuta “dipendenza”) possiede una grande forza. Non solo supplisce alle debolezze fisiche e ai naturali limiti imposti dalle invalidità del corpo, ma conserva e spesso restaura capacità cognitive, mnemoniche e relazionali in modo molto potente. Innumerevoli studi epidemiologici mostrano come le necessità assistenziali, la qualità della vita e le riserve funzionali fisiche e mentali siano significativamente e direttamente correlate alla grandezza e alla qualità della rete di rapporti umani e sociali.
Le cure palliative hanno il merito di accompagnare verso un’effettiva “buona morte” vincendo la paura di una sofferenza insopportabile e vissuta in solitudine. Purtroppo ancora non c’è un’adeguata conoscenza e neppure un adeguato impegno per far conoscere e quindi praticare le cure palliative. Lo scarso impulso dato a questa prospettiva facilita la triste altalena tra accanimento e abbandono terapeutico.
Un limite culturale, che affligge anche alcuni sanitari che si occupano di medicina palliativa, è quello di pensare che, di fronte a esplicita richiesta del paziente o a situazioni drammatiche di sofferenza, la scelta di abbreviare la vita di una persona possa far parte dell’armamentario delle soluzioni adottabili: ciò non solo stravolge la definizione stessa di cure palliative, ma anche il senso profondo di questo approccio al malato e, in ultima analisi, il senso di tutta la medicina. Dal punto di vista medico, è fondamentale il criterio della “proporzionalità delle cure”. Ciò ammette l’astensione dalle terapie, quando queste non siano più adeguate da un punto di vista dell’indicazione medica. Ciò però non deve essere confuso con forme di eutanasia omissiva. Non ogni astensione di cure è di per sé eticamente appropriata, neanche per il fatto che ci si trovi di fronte ad un paziente con infermità avanzata e persino terminale. Soprattutto, anche qualora le terapie attive si rivelassero oramai inefficaci o sproporzionate, si dovrà comunque sempre continuare a prendersi cura del malato, attraverso l’adeguata palliazione dei sintomi e l’attenzione alla sua persona e a i suoi bisogni attraverso la cura della nutrizione, dell’idratazione e dell’igiene.
Il malato deve restare vivo fino alla morte, e non morire socialmente prima che biologicamente.