Si chiama Gentle Care la nuova arma contro l’Alzheimer.

14 giugno 2017

Luisa Bartorelli

Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione in Italia ha portato a contare a tutt’oggi circa 20mila centenari, con uno stuolo di novantenni e di ottantenni che premono alle loro spalle.

Ma chi sono questi oldest-old ? Persone estremamente fragili, che presentano quasi sempre un calo funzionale sui tre domini: biologico, psicologico e sociale. Dal punto di vista cognitivo, uno su tre sviluppa un deficit che sfocia in demenza.

Tuttavia, a questa generazione di anziani ne seguirà un’altra che, sulla base di dati che già cominciano ad affluire, appare molto diversa, e che sarà in parte costituita dai cosiddetti baby boomers degli anni Sessanta. Molti di loro saranno portatori di un “invecchiamento di successo“ o, quanto meno, avranno usufruito di uno stile di vita che gli ultimi studi longitudinali indicano come fattore protettivo anche per la demenza.

Possiamo allora – visto che l’incidenza della malattia di Alzheimer mostra già un andamento più rallentato assieme a una diminuzione della comorbilità – esorcizzare i cattivi profeti e guardare al futuro in modo non più così catastrofico? E’ il caso di rivedere e ripensare la filosofia di approccio a tale patologia? Il percorso della persona con demenza si è in qualche modo trasformato? E il caregiver, colui che se ne prende cura, è in grado di apprendere nuove strategie di accudimento, oppure la complessa relazione con il suo assistito offusca ancora la sua coscienza?

E’ necessario rispondere con saggezza a tutti questi interrogativi, proprio perché negli ultimi anni è fiorita una narrazione fatta di libri, romanzi e saggi, film e cortometraggi dedicata alle problematiche sociali e familiari della demenza, la quale ha finito con l’aumentare sconcerto e sgomento in un’ opinione pubblica non adeguatamente indirizzata.

Al contrario, guardando il fenomeno attraverso la lente positiva delle tante cose che si possono mettere in atto a favore delle persone colpite, è oggi diventato possibile  ricostruire un rapporto tra il malato e la comunità abbattendo il muro dello stigma, rendendo la comunità più amichevole e accogliente, e presentando il profilo della persona con demenza più vicino possibile alla “normalità”.

A tale proposito noi della Fondazione Roma siamo convinti che il metodo del Gentle Care, con questo suo indovinatissimo nome così accattivante nella sua semplicità, pur ricco di coscienza e sapienza, sia un punto di riferimento per operatori e servizi. Si tratta di mettere in campo una triade persone-attività-spazio, che vada incontro a chi è affetto da demenza soprattutto nei luoghi di cure, valorizzandone le capacità ancora conservate e salvaguardandone preferenze e dignità.

Per l’efficacia del metodo è essenziale la formazione delle persone implicate a tutti i livelli. Dall’operatore di ogni professionalità ai caregiver primari, agli assistenti  familiari (badanti), ai volontari; e sia riguardo alle competenze specifiche che – aspetto forse ancora più importante – alla capacità di comunicazione con tali malati, così complessi e imprevedibili. Questo, infatti, è il primo braccio del GentleCare, quello per cui il suo nome appare ancora più significativo. Comunicare con la persona affetta da demenza vuol dire penetrare con gentilezza il suo mondo interiore così perturbante, a volte oscuro, per fare luce su espressioni e comportamenti. Una formazione che deve appunto saper adeguarsi a nuove modalità di approccio, a nuovi tipi di servizi, a nuovi contesti sociali; in definitiva a soluzioni sempre nuove.

Per quanto concerne le attività da proporre, esse si devono basare sulla storia di ogni persona; pur adeguandosi alle capacità conservate di ciascuno, debbono essere in grado di stimolare abilità spesso sottaciute e un’espressività affettiva spesso frenata dalle situazioni emergenti. Dal mondo scientifico arrivano di continuo conferme sull’efficacia di attività che fino a poco tempo fa venivano considerate soltanto socializzanti, sebbene anche questo non fosse un valore da poco.

Si ritiene, ad esempio, che la terapia occupazionale abbia un peso sulla gestualità, sulla motricità generale e persino sul linguaggio. La musicoterapia, oltre alla sua valenza comunicativa ed emozionale, può diventare strategia cognitiva, stimolando la memoria autobiografica. Attraverso il neuroimaging si è potuto verificare come vengano stimolate aree cerebrali diverse, a seconda che si ascolti, si suoni o addirittura si pensi musica.

Anche la cosiddetta pet-therapy può avere una sua valenza positiva se effettuata in luoghi adeguati come le RSA, con il ricorso ad animali domestici tradizionali, e rapportati alle condizioni delle persone: il cane per chi ancora deambula, il gatto o il coniglio per i meno autosufficienti, persino ranocchie e asini

Ma un posto di rilievo tra le nuove modalità di “riattivazione“ occupa l’arteterapia, che ci piace definire anche “la memoria del bello”, ossia la visita guidata ad opere d’arte in ambiente museale, senza dubbio un vanto nazionale ed europeo di Fondazione Roma e del suo Presidente Professor Emanuele.

Partendo dall’esperienza del MOMA di New York (Alzheimer’s Project “Meet me”) la Fondazione ha coinvolto in un primo tempo i suoi due musei (Palazzo Sciarra e Palazzo  Cipolla), per poi estendere l’esperienza alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, alla Galleria Doria Pamphili e persino al modernissimo MAXXI.

Vari studi osservazionali hanno evidenziato come l’arte e tutte le attività di stampo estetico possano svolgere un ruolo riabilitativo a favore delle persone affette da demenza, poiché mettono in moto i circuiti emozionali che risultano preservati più a lungo rispetto a quelli cognitivi. In questo modo, si incide positivamente sulla memoria autobiografica, si stimolano idee e associazioni. Partendo da tali suggestioni, già a partire dal 2007, il nostro Centro Diurno Alzheimer sperimenta interventi psicosociali a mediazione artistica contro la demenza, usando modalità che dal 2016 sono sfociate nel progetto “pARTEcipo anch’io”, svolto in collaborazione con la Geriatria dell’Università di Perugia.  Il protocollo concordato con la struttura perugina, la quale ha reso validità scientifica alla ricerca, attraverso una puntuale valutazione dei risultati, consiste nel condurre per una durata di circa 2 ore un massimo di 12 persone con demenza lieve-moderata, accompagnate da personale del servizio e da volontari, davanti a 3/4 opere d’arte illustrate da operatori museali sensibilizzati ad hoc. Ad una settimana di distanza le immagini delle opere vengono rivisitate assieme allo stesso esperto del museo presso il Centro Diurno, in un contesto ambientale familiare che funge da “base sicura”.

Proponendo le stesse opere d’arte in due momenti diversi e in due ambienti differenti s’intende favorire la creazione di una traccia mnesica, seppure di tipo implicito. A due settimane di distanza viene poi effettuato un secondo e ultimo richiamo delle opere, trramite la realizzazione di un cartellone riassuntivo dell’esperienza. Durante il percorso del progetto, gli operatori in équipe (psicologa, infermiera, terapista occupazionale, OSS) compilano una griglia di osservazione per ogni paziente,  prendendo in esame aspetti cognitivi, affettivi e comportamentali, e annotando le verbalizzazioni effettuate dalle persone durante gli incontri. Inoltre, un’intervista semistrutturata viene somministrata ai familiari dopo ogni ciclo, per valutare le ricadute ambientali. Due associazioni di volontariato, Alzheimer Uniti Roma e A.M.A.T.A. Umbria, assicurano le azioni di collegamento, sostegno alle persone e supporto allo studio scientifico, che è peraltro totalmente finanziato dalla Fondazione Sanità e Ricerca.

Le terapie utili, come si vede, possono essere diverse, ma quel che in ogni caso si rivela importante è costruire, anche proprio in senso architettonico, un ambiente nel quale le persone con demenza possano muoversi in libertà. Da studi consolidati sappiamo ormai quanto lo spazio, i suoi colori, la sua luminosità, i suoni e l’aria stessa, adattati alle peculiarità specifiche dei malati di Alzheimer, o di altri tipi di demenza, siano determinanti per la  riattivazione e il loro benessere.

Tutto ciò può essere esaltato da tecnologie innovative applicabili nell’ambito delle cure, come alcuni software creati ad hoc per la demenza, finalizzati e programmati a rendere l’ambiente più stabile e sicuro. Ben venga, quindi, una tecnologia mirata, pur con l’accortezza di evitare un eccesso di stimoli.

Davanti a tale scenario di espressività cliniche e di potenziali risorse metodologiche, la risposta assistenziale non può comunque che essere a forma di rete, una rete  di servizi sociali e sanitari di diversa intensità a seconda dei bisogni.

Ed ecco che accanto al centro diurno e all’assistenza domiciliare dedicata, peraltro non ancora sufficientemente sviluppati, vediamo aprirsi delle novità come i caffè Alzheimer o i meeting points, luoghi socializzanti di aggregazione, che recano messaggi positivi anche verso l’ambiente esterno, creando un’ atmosfera di normalità. E accanto alla RSA, la forma di residenza tradizionale, si sta sviluppando un altro modo di abitare, il cosiddetto Villaggio Alzheimer, del quale il Professor Emanuele si è fatto, primo in Italia, promotore e garante.

In definitiva, tutti gli ambienti, dalla propria casa alle comunità-alloggio possono essere considerati i luoghi delle cure, a condizione di mantenere la dignità della persona durante tutto il decorso di malattia, e di assicurare relazioni di qualità.

Non bisogna, infatti, mai dimenticare che nulla può superare l’efficacia della relazione umana. Come scrive Lucrezio: “Humani nihil a me alienum puto”.